sabato 6 agosto 2011

Tutta la vita davanti.



Ieri ai campetti sportivi del mio paese c'era un bambino di neanche 8 anni che si allenava a Tennis con il suo tutor nel campo accanto a quello in cui giocavo io.

Dire che era strabiliante è troppo riduttivo.

Non capiva l'italiano, parlava solo il francese, e il suo allenatore lo allenava in francese. Domani mi farò dire il nome, perché sono sicura che tra una decina d'anni sentirò lo stesso nome nel Tennis mondiale, quello che conta.


In quel momento mi sono chiesta quanto delle scelte che facciamo da bambini influenzino la nostra vita da adulti. Guardando i suoi smash perfetti e il mio rovescio sgangherato, mi sono ritrovata a domandarmi cosa sarebbe successo se io, alla sua stessa età, non avessi mai mollato il Tennis. E cosa sarebbe successo se non avessi mollato il pianoforte a 11 anni, la danza la classica a 12, gli scacchi a 13. Sicuramente ora non sarei ne Maria Sharapova ne Alessandra Ferri, ma probabilmente avrei una predisposizione migliore alla sofferenza fisica, alla competizione, alla costanza, alla disciplina, e forse anche all'arte o allo sport in generale. Forse ora le coppe vinte da bambina sarebbero ancora di più, lì sulla mensola in soggiorno. Forse non sarei così pigra, svogliata e incostante. O forse avrei potuto sfondare, chi lo sa: le carte le avevo.


E allora poi ho pensato a tutti quei bambini che hanno la fortuna di sfoderare un talento impressionante già in tenera età, i "bambini-prodigio". C'è la bimba che all'età di un anno e mezzo conosce tutte le capitali, il bambino cinese che risolve il cubo di Rubik in 8 secondi, o Tatiana Petrova che a 13 anni sapeva già fare 32 doppi Fouettes con una naturalezza incredibile. E mi sono ritrovata a chiedermi se avere un talento del genere in età così precoce sia una fortuna o una maledizione. Si, perché ieri nei momenti di pausa, osservavo il bambino-fenomeno accanto a me, e insieme alla passione e alla gioia, osservavo la sofferenza che si faceva strada nello sguardo di lui, nervoso e concentrato, con in mano una racchetta a tratti troppo pesante per il suo braccio così esile. Ho visto il sudore colargli dalla fronte e lambire le vene del collo tese per uno sforzo forse troppo grande, ho visto le sue braccia, non più spesse di un mio polso, flettersi e stendersi in continue e immagino dolorose flessioni sul cemento battuto. Ho sentito parlare dell'incredibile numero di tornei che ha già vinto, e dell'impressionante numero di ore di allenamento personalizzato cui si sottopone già ogni santo giorno. Ho visto lo sguardo e lo sforzo di un adulto negli occhi di un bambino di 7 anni e mezzo.


E soprattutto mi sono chiesta quanto valga il talento senza allenamento e costanza, e quanto valgano l'allenamento e la costanza senza il talento.

Io mi sono spesso lamentata di non avere il culo di essere nata con un talento spiccato, in qualsiasi campo, ma la verità è, forse, che io lo avevo, che molti di noi lo avevano, ma non l'ho scoperto o non l'ho allenato, e l'ho lasciato morire.

E forse, tutto sommato, è stato meglio così.


E allora, la verità più ovvia del mondo si è stampata limpidamente nella mia coscienza come cera fusa in uno stampo.

In quell'attimo ho improvvisamente capito che, al di là dell'innocenza, della spensieratezza, dei giochi, del saper vedere l'essenziale che è invisibile agli occhi, del saper immaginare, inventare, scoprire, andare oltre, il bello della fanciullezza è il non-essere, l'indefinito, la possibilità, il potenziale in se.

Quando hai 7 anni e mezzo non sei ancora nessuno e puoi ancora essere tutto. Puoi essere un tennista, un pianista, un attore, un cantante, un fotografo, uno scrittore, un regista. E tu ancora non lo sai. Puoi decidere di essere tutto, e provare a diventare tutto. Poi magari non sfonderai in niente di tutto ciò, e da grande diventerai un bravo e felice architetto, dottore, avvocato, meccanico, pasticcere: ma a 7 anni e mezzo, questo ancora non lo sai.


E' questo il reale significato dell'avere "Tutta la vita davanti", come il film di Virzì. E' questa la reale bellezza dell'essere bambini, del non aver ancora scelto, del dover ancora crescere. Ecco, probabilmente, perché l'Oltreuomo di Nietzsche di meglio non è che il fanciullo: perché è proprio lui che racchiude in se le sterminate possibilità dell'Infinito.