sabato 21 febbraio 2009

Auschwitz, 12 Febbraio 2009.


Mai prima di quel momento, avevo provato la sensazione di non essere in grado di parlare.
Mai prima d’allora, avrei immaginato di non trovare più le parole.

Mai avrei creduto fosse possibile rabbrividire così, non per il gelo, non per il vento, non per la neve.
Per l'orrore.

Mai nella mia vita avevo visto così tanto.
Così tanti capelli, capelli umani. Otto tonnellate.
Sottili, bianchi, stretti l'un l'altro come i pallidi cadaveri dei proprietari, ammassati nelle fosse comuni in attesa di essere dati alle fiamme.

Così tante valigie, sfondate, saccheggiate, abbandonate.



Ognuna scrupolosamente segnata con un nome, un indirizzo, qualche volta con una data.
L'ultima ingannevole, tenera, struggente speranza di uomini che entrando lì non capivano di essere stati ingannati, che in quel posto chiamato Auschwitz non avrebbero trovato il rifugio sicuro che i tedeschi avevano promesso ne tantomeno un lavoro migliore. Non pensavano che il lavoro li avrebbe schiavizzati, umiliati, depredati della loro dignità, persino uccisi. Non immaginavano che lì dentro avrebbero patito sofferenze così atroci che avrebbero agognato ogni giorno la morte con una tale intensità da far rabbrividire.

Portavano con loro tutto, ogni avere, ogni ricchezza, ogni bene: valigie, scarpe, gioielli, spazzole, vestiti.




Assecondavano involontariamente i nazisti che li aspettavano al varco, pazzi, ladri, assassini, bestie.
Ma questo gli ebrei non potevano saperlo. Non ancora.

Così tante foto.
Uomini e donne, giovani e anziani.
Immortalati nell’attimo più straziante: quello dell’arrivo al campo.
Tutti diversi, eppure tutti uguali.
Tutti sofferenti, tutti distrutti, tutti rassegnati.
Tutti ancora speranzosi.
Fa male guardarli negli occhi, lì appesi al muro.
Giro su me stessa nella stanza delle foto, rapita e turbata. Perdo l’orientamento, tutte le pareti sono coperte di volti. Dopo un po’ mi rendo conto che non sono più io a guardare loro: sono loro che osservano me.
È come se fossero ancora vivi. Vorrebbero parlarmi, gridare, chiedere aiuto, pietà, perdono.
Chiedermi di non dimenticarli.
- Ragazzi, facciamo un gioco – ci dicono i nostri animatori – osservate con calma tutte le foto, riflettete, scegliete l’immagine di un deportato. Adottatelo. Ricordate il suo nome e provate ad immaginare la sua storia. –
Ci distribuiscono un pezzo di stoffa ciascuno, insieme ad un pennarello nero.
- Ehi Ale – sussurro al nostro capogruppo – non mi piace questo gioco - .
Lui mi posa una mano sulla spalla, comprensivo.
- Fallo solo se lo senti
No, non voglio.
Come si può trovare, in mezzo a tanti volti, quello da adottare ?
Come se questa gente non fosse già stata abbastanza studiata, analizzata, selezionata e poi trucidata.
Mi sentirei crudele a fare anche io una scelta.
Mi guardo intorno, vedo tanti ragazzi, quasi tutti, che annotano sul loro pezzo di stoffa il nome di una vittima. Anche gli adulti, anche i professori lo fanno.
All’improvviso mi sento a disagio.
Mi giro, voglio andarmene via.
Mi allontano dal gruppo, non sono la sola a farlo, e non mi importa.
Cambio stanza.
E ciò che vedo, torna ad attanagliarmi lo stomaco.
Tante altre foto, ancora, volti attaccati alle pareti.
Ma di bambini.
Sono diverse, da quelle degli adulti.
Le loro espressioni sono tenere, dolci, inconsapevoli.
Accennano un sorriso, giocano con l’obiettivo, si guardano attorno curiosi.
Ancora non sapevano, non potevano avere la consapevolezza di ciò che gli stava per accadere.
Quelli che avevano la sfortuna di sfuggire alle camere a gas, venivano imprigionati e usati come cavie da laboratorio per esperimenti medici. Moriranno lentamente, consapevolmente, patendo sofferenze indicibili.
Eppure sono lì, davanti alla macchina fotografica, con tutta la loro innocenza.
Ad un certo punto una foto, una fra le tante, cattura in modo particolare la mia attenzione.





Mi avvicino, meravigliata. Leggo la targa sotto l’immagine:

Czeslawa Kwoka
13 Dicembre 1942 – 12 Marzo 1943.

Leggo l’età, più in basso, ed una struggente tenerezza mi morde il petto.

12 anni.

Sarebbe bastato qualche anno in meno, uno o forse due, per far sì che venisse mandata direttamente nelle camere gas assieme ai neonati e ai bimbi troppo piccoli per gli esperimenti.
Solo un paio d’anni, e sarebbe spirata soffrendo molto meno.
Mi ha attirata subito, e mi ci vuole un istante a capire il perché.
Le foto degli altri bambini raccontano stati d’animo differenti, quasi bizzarri: curiosità, spavento, smarrimento, paura. Nessuno di loro ha capito, neanche uno sembra consapevole di quanto gli sta accadendo.
E invece nei suoi occhi, c’è qualcosa di più.
Rassegnazione, e tanta, tanta malinconia. Sono lucidi, bagnati di lacrime represse e frettolosamente soffocate.
Come se lei sapesse, come se avesse intuito il crudele destino che presto avrebbe stroncato la sua giovane vita. Non fissa l’obiettivo, il suo sguardo è puntato verso l’alto, timoroso, assente.
Ha un taglio, sotto le labbra. Deve essere stata picchiata, o Dio solo sa cos’altro.
Prendo il mio pezzo di stoffa, d’istinto, e ci copio sopra ogni virgola segnata sulla sua targa.
Da quel momento, qualunque cosa ci portino a vedere, ho il suo viso impresso nella mia memoria.
È lei che ho in mente quando ci portano a visitare i forni crematori.
È a lei che penso quando entriamo nelle camere a gas.
È lei che vedo quando sfiliamo silenziosi davanti alla forca collettiva, ai muri della morte, ai pali della tortura.
Come sei morta, Czeslawa?
Avrai sofferto così tanto?

Chi eri prima di essere imprigionata in quell’inferno?
Prego con tutto il cuore che Dio le abbia concesso un’infanzia felice, la migliore che si possa desiderare per un bambino.
Glielo deve, cazzo. Almeno questo.
Anche se non basterebbe mai a ripagare la mostruosità di una vita tranciata così prematuramente.


Lasciamo Auschwitz, entriamo in Birkenau.
È straordinariamente più grande, più gelido, più toccante.
Ci si perde osservando il campo, le baracche di legno, le topaie utilizzate per dormitori, le stanze della tortura, i segni ancora visibili delle immense fosse comuni.
I fiocchi di neve, le colline imbiancate, il tramonto infuocato.
Se non fosse per l’orrore del posto, mi verrebbe da pensare: che panorama stupendo.





La ferrovia, lunga e solitaria, che corre tra la neve per fermarsi ad un passo dalle camere a gas.
Quanta gente ha avuto come ultimo ricordo quella ferrovia, prima di morire soffocata?
È bello camminarci sopra, al centro.
Trovarsi dentro quell’immagine che tante volte hai visto nei libri di storia.




Sentire dentro di te l’eco di urla sepolte, di pianti soffocati, di morti silenziose, di speranze annichilite. Avvertire, su quelle rotaie, la sofferenza straziante di centinaia di uomini ammassati nei vagoni merci in uno spaventoso groviglio di membra umane.
Indescrivibile.

E poi, alla fine di Birkenau, le foto.
Di nuovo.
Quando il campo fu liberato, le truppe sovietiche trovarono, nascoste nei dormitori dei prigionieri, centinaia di foto gelosamente nascoste e custodite.
Erano le foto dei prigionieri, dei loro cari, della loro vita quando ancora era degna di essere chiamata tale.
Fa male dentro vederle esposte, immagini allegre, bambini che sorridono, una mamma che allatta, amici che scherzano al mare, un matrimonio, un battesimo, una coppia di fidanzatini in un parco, centinaia e centinaia di situazioni analoghe, felici, non ancora deturpare dall’orrore della morte.
Sono immagini che sanno di già visto, che ricordano quelle dei nostri nonni, in bianco e nero, sfumate, sfocate, eppure terribilmente toccanti.
Siamo abituati a provare compassione davanti ad immagini studiate, bambini poveri africani, bambini neri, foto di prigionieri colti nell’attimo prima della morte.
Non siamo abituati a sentirci così commossi davanti alla normalità, ad immagini comuni, piene di gioia.
Vedi te stesso in quelle foto, tu e i tuoi amici, tu e i tuoi parenti, tu e la tua vita. Pensi che potresti tranquillamente essere stato uno di loro, ti chiedi cosa avresti fatto, come avresti reagito, se lo avresti sopportato. Intravedi, nell’innocenza di quelle foto, la bestialità di milioni di vite rubate, di relazioni interrotte, potenzialità non sviluppate, aspirazioni non coltivate.
E se c’era una cosa, che la follia nazista non aveva previsto, era che non erano i gioielli, i vestiti, le valigie, i soldi, i beni più cari che erano riusciti a sottrarre ai prigionieri.
C’era qualcosa di ben più prezioso, che mai sarebbero riusciti a rubare: tutti i loro ricordi.
E davanti a quelle foto, una lacrima corre giù, solitaria e silenziosa.

E così calano le tenebre su Auschwitz, mentre settecento ragazzi hanno appena vissuto l’esperienza più toccante della loro vita.
Ci raccogliamo attorno al monumento di commemorazione, dove è stato approntato un palco per l’assemblea, ascoltiamo, pensiamo, riflettiamo, leggiamo, applaudiamo, piangiamo, urliamo.
Io mi volto, e sulle rotaie su cui ho camminato a lungo avanti e indietro con il cuore in tumulto, vedo lei, leggera, che mi guarda e quasi sorride: Czeslawa.
La ragazzina dagli occhi tristi.
Mentre intorno, è ormai buio.




“Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.”
(Elie Wiesel)

mercoledì 4 febbraio 2009

Alternative World


Eppure a volte, mi capita ancora di estraniarmi in un universo tutto mio. Anzi no, non sono io ad entrare in un altro mondo, è proprio quell’altro mondo a farsi largo prepotentemente tra i meandri più reconditi dei miei pensieri, ad irrompere bruscamente nella mia realtà mentale e persino visiva. Come se la quotidianità che mi circonda cambiasse improvvisamente forma, sfumando gradualmente in una realtà dai contorni sempre più fantastici. Non è come sognare: i sogni sono fittizi, ingannevoli, offrono una rappresentazione distorta e illusoria della verità.
Questo è qualcosa di più. È come entrare nell’Eden, ma dalla porta di servizio. Come essere introdotti di soppiatto in un universo che pochi, pochissimi, o forse nessuno tranne te, ha avuto la possibilità di scoprire. E il bello è che, quando accade, non te ne rendi neanche conto: sei scioccato, completamente paralizzato dallo stupore e dalla meraviglia. Ti ritrovi a chiederti cosa ci fai lì, e perché gli altri non sono con te. Vorresti che anche loro ammirassero quello che tu vedi, che senti, che percepisci, vorresti che la smettessero di guardarti come se fossi diventata matta.
Poi però, ti rendi conto che è più bello essere da soli. Dà più gusto a quello che osservi, lo rende più caldo, più intimo, più segreto.
Ed è allora che mi rendo conto di essere infinitamente riconoscente a chi mi ha donato questo corpo, che come una rete dorata, imprigiona la mia essenza. Perché dentro, ho un mondo che nessuno potrà mai neanche immaginare…