sabato 6 agosto 2011

Tutta la vita davanti.



Ieri ai campetti sportivi del mio paese c'era un bambino di neanche 8 anni che si allenava a Tennis con il suo tutor nel campo accanto a quello in cui giocavo io.

Dire che era strabiliante è troppo riduttivo.

Non capiva l'italiano, parlava solo il francese, e il suo allenatore lo allenava in francese. Domani mi farò dire il nome, perché sono sicura che tra una decina d'anni sentirò lo stesso nome nel Tennis mondiale, quello che conta.


In quel momento mi sono chiesta quanto delle scelte che facciamo da bambini influenzino la nostra vita da adulti. Guardando i suoi smash perfetti e il mio rovescio sgangherato, mi sono ritrovata a domandarmi cosa sarebbe successo se io, alla sua stessa età, non avessi mai mollato il Tennis. E cosa sarebbe successo se non avessi mollato il pianoforte a 11 anni, la danza la classica a 12, gli scacchi a 13. Sicuramente ora non sarei ne Maria Sharapova ne Alessandra Ferri, ma probabilmente avrei una predisposizione migliore alla sofferenza fisica, alla competizione, alla costanza, alla disciplina, e forse anche all'arte o allo sport in generale. Forse ora le coppe vinte da bambina sarebbero ancora di più, lì sulla mensola in soggiorno. Forse non sarei così pigra, svogliata e incostante. O forse avrei potuto sfondare, chi lo sa: le carte le avevo.


E allora poi ho pensato a tutti quei bambini che hanno la fortuna di sfoderare un talento impressionante già in tenera età, i "bambini-prodigio". C'è la bimba che all'età di un anno e mezzo conosce tutte le capitali, il bambino cinese che risolve il cubo di Rubik in 8 secondi, o Tatiana Petrova che a 13 anni sapeva già fare 32 doppi Fouettes con una naturalezza incredibile. E mi sono ritrovata a chiedermi se avere un talento del genere in età così precoce sia una fortuna o una maledizione. Si, perché ieri nei momenti di pausa, osservavo il bambino-fenomeno accanto a me, e insieme alla passione e alla gioia, osservavo la sofferenza che si faceva strada nello sguardo di lui, nervoso e concentrato, con in mano una racchetta a tratti troppo pesante per il suo braccio così esile. Ho visto il sudore colargli dalla fronte e lambire le vene del collo tese per uno sforzo forse troppo grande, ho visto le sue braccia, non più spesse di un mio polso, flettersi e stendersi in continue e immagino dolorose flessioni sul cemento battuto. Ho sentito parlare dell'incredibile numero di tornei che ha già vinto, e dell'impressionante numero di ore di allenamento personalizzato cui si sottopone già ogni santo giorno. Ho visto lo sguardo e lo sforzo di un adulto negli occhi di un bambino di 7 anni e mezzo.


E soprattutto mi sono chiesta quanto valga il talento senza allenamento e costanza, e quanto valgano l'allenamento e la costanza senza il talento.

Io mi sono spesso lamentata di non avere il culo di essere nata con un talento spiccato, in qualsiasi campo, ma la verità è, forse, che io lo avevo, che molti di noi lo avevano, ma non l'ho scoperto o non l'ho allenato, e l'ho lasciato morire.

E forse, tutto sommato, è stato meglio così.


E allora, la verità più ovvia del mondo si è stampata limpidamente nella mia coscienza come cera fusa in uno stampo.

In quell'attimo ho improvvisamente capito che, al di là dell'innocenza, della spensieratezza, dei giochi, del saper vedere l'essenziale che è invisibile agli occhi, del saper immaginare, inventare, scoprire, andare oltre, il bello della fanciullezza è il non-essere, l'indefinito, la possibilità, il potenziale in se.

Quando hai 7 anni e mezzo non sei ancora nessuno e puoi ancora essere tutto. Puoi essere un tennista, un pianista, un attore, un cantante, un fotografo, uno scrittore, un regista. E tu ancora non lo sai. Puoi decidere di essere tutto, e provare a diventare tutto. Poi magari non sfonderai in niente di tutto ciò, e da grande diventerai un bravo e felice architetto, dottore, avvocato, meccanico, pasticcere: ma a 7 anni e mezzo, questo ancora non lo sai.


E' questo il reale significato dell'avere "Tutta la vita davanti", come il film di Virzì. E' questa la reale bellezza dell'essere bambini, del non aver ancora scelto, del dover ancora crescere. Ecco, probabilmente, perché l'Oltreuomo di Nietzsche di meglio non è che il fanciullo: perché è proprio lui che racchiude in se le sterminate possibilità dell'Infinito.

martedì 18 maggio 2010

Atelofobia



Tace attonita

la banalità dell’anima

sottomessa alla meravigliosa bellezza,

schiava dell’ineffabile perfezione.

E i frammenti di infinito

che serpeggiano, evanescenti,

tra il nichilismo di pensieri vacui

e il qualunquismo di riflessioni inutili,

si trastullano nella perenne indecisione,

troppo timidi per sublimarsi

nell’immensità del divino,

troppo vili per crogiolarsi

nel conforto dell’anonimato.

E quando la notte scura

inghiottirà questo cielo gelido

rimarrò preda

di un’insoddisfazione deleteria

e dell’ossessiva fobia

di annegare nella mediocrità.

martedì 15 dicembre 2009

Black. Out.




- Ci hai mai pensato?

Si. No. Forse. Può darsi.
Dipende dalla domanda.
- A cosa?
Schiocco di lingua, respiro profondo.
- A com’era prima che arrivassimo noi.
Ok, ammetto che inizia ad essere divertente. Così eh, giusto perché non ho niente che posso fare al momento. Tranne fissare il buio.
- Taglia corto. Com’era cosa?
Sospiro stizzito. L’irritazione del prestigiatore a cui viene chiesto di svelare il suo trucco.
- A com’era il mondo prima che noi nascessimo.
Ah ah ah. Questa l’ho già sentita.
Va bene, ci sto. Tanto sono bloccata qui dentro, non è che abbia molte alternative.
Si, in effetti ci ho già pensato.
Più di una volta.
Ci sto pensando anche ora, se è per questo.
Si, proprio ora che un temporale gigantesco, una vera e propria tempesta oserei dire, si è
abbattuta su Solian City e sulla mia casa, tagliando via la corrente elettrica e mandando in black-out l’intero isolato.
Che disgrazia. Ma ti immagini? Un intero paese senza elettricità, forse anche di più.
Te ne accorgi prima di tutto perché ti salta internet. Si, dico bene: la prima cosa che noti non è che la casa improvvisamente piomba nel buio, ma l’avviso che ti manda il tuo caro computer: CONNESSIONE PERSA.
Tragedia.
A questo punto bestemmi mentalmente in tutte le lingue che conosci, dialetti compresi
(che a pensarci bene, non sono poi tanti). Mandi a fanculo l’Enel e compagnia bella, ti alzi trascinando con te il computer che ormai funziona a batteria, e ti sposti da una stanza
all’altra usandolo come torcia.
Dopo di che, ti stendi sul divano e inizi a contare le pecore, in compagnia di una
vocina rompiscatole.
Perché in effetti la verità è che senza elettricità, oggi sei fottuto.
Niente internet. Niente Tv. Niente Stereo. Niente di niente.
Anche niente luce, ma va beh, quello alla fine non è poi così grave.

- Come facevano 90 anni fa, quando la corrente elettrica non l’avevano neanche inventata?!
Eh, bella domanda. Prova a chiederlo a chi ci è vissuto, 90 anni fa.
Dal canto mio, io so solo che così è terribilmente scomodo.
Mi alzo dal divano, mi stendo direttamente sul pavimento.
Faccia in giù, mani accanto alla testa. Guancia contro il marmo gelido.

Forse dovremmo tornare a Milano. In piazza Duomo, sotto l’albero di Natale più grande che io abbia mai visto. Forse dovremmo tornare a non dormire la notte, a camminare tutto il giorno, a scherzare in treno. A fare foto e a cantare. Davanti all’ingresso della Scala. Lì dove le ombre sono bianche, e la luce è grigia. A ricordarti che non tutto è scontato e che niente è come sembra.
Chissà come sarebbe, Milano, in mezzo ad un black-out.

-Piove.
Diluvia, a dire la verità. Chissà con chi il cielo si è incazzato così tanto.
Fa un sacco di un rumore, eppure non riesco ad averne paura. Perchè c’è una cosa, della pioggia, che mi ha sempre affascinata: non cade mai nello stesso punto. Ogni spruzzo, ogni goccia d’acqua trova la sua precisa collocazione: sui petali di un fiore, tra le foglie di un albero, sulle rocce, tra i capelli di un passante. Ogni gocciolina d’acqua è identica a tutte le altre, eppure è unica.
Figo.

A Milano non ha piovuto. Ha nevicato, solo per un attimo. Illusione di un inverno non visto da
tanto.
Voglio tornare a Milano.


- Ehi, io esco.

Chiudo il computer con un colpo secco, soffocando l'unica fonte di luce. Balzo in piedi.
- Dove vai?
Curiosità, meraviglia.
- Fuori.
Afferro il cappotto, al buio.
- Ma sei scema? C’è il temporale!
Chiudo la zip, sollevo il cappuccio di pelo.
-
Ha quasi smesso. E poi c’è una cosa che voglio fare.
Cerco a tentoni la porta, senza vederla.
- Che cosa?
Abbasso la maniglia e salgo le scale. Dietro di me una scia di incredulità e stupore.
Arrivo in cima, nella testa il ronzio di un’eco già lontana.
-
Voglio vedere questo mondo prima che torni la luce.
Poi mi giro ed esco fuori, sul terrazzo.
Aria fredda, vento in faccia. Gocce d’acqua sopra il viso, l'umido pungente che pizzica le narici.
La luna si vede meglio, al buio. Anche le stelle, e le nuvole.
Giù invece non si vede quasi nulla. Solo lo spettro silenzioso della campagna scura, e il chiaroscuro ipnotico di un paese nel buio.
Lampioni spenti, un abbaiare lontano, echi sconnessi. E poi nient’altro: non passa nessuno, non si muove una mosca. Tutto è fermo, sospeso e silenzioso, come se uno spettatore annoiato avesse premuto distrattamente il tasto dello stop per andare in cucina a farsi una tazza di caffè, stanco di un film piatto e senza colpi di scena. Come se un pallido flash avesse catturato per sempre quel fremito di immobilità in una fotografia in bianco e nero. Affascinante.
-
E con il post come fai? Lo lasci così?
Però in lontananza, lungo l’orizzonte, si riesce già a vedere qualcosa.
È la luce che ritorna. Lentamente, di strada in strada, serpeggiando tra gli edifici.
-
Che importa? Tanto è senza senso. Lo capirei solo io.
Le nuvole pian piano si ritraggono, lassù, e il sereno squarcia il temporale.
E poi ho finito la batteria.


mercoledì 21 ottobre 2009

La danza delle Ombre



Succede per caso. Senza se o perché. Ti senti strana, diversa. Folle.
Vuoi andare via, lontano. Fuggire nel buio, di notte, senza sentire il bisogno di nasconderti dietro un cespuglio per guardare che faccia fanno non vedendoti tornare mai più.
Saranno disperati? Contenti? Dispiaciuti?
Come quando da bambina sognavi di morire, fingere di farlo, solo per spiare le reazioni degli altri.
Fottitene.

Sogni. Cosa sono i sogni?
Nuvole, aria, nebbia. Polvere.
Incorporei. Li attraversi in un istante: bim, bum, bam. Come quando da piccola saltavi a piedi uniti la linea di gesso nel cortile. Hop, hop. Prima di qua e poi di là. Qui, lì.
Sei a metà. Né carne né pesce, né bianco né nero. Chi sei? Che sei?
Boh!
Nulla. Di nulla. Di nulla.
Io penso, che penso, che penso.
Stop. Pause. Rewind.

E raccatti i cocci della tua indecisione. Perennemente in bilico, sull’orlo dell’abisso, pronta a buttarti giù. Oppure a saltare su.
E allora via, rivoluzione: cambio film, cambio aria, cambio stile. E anche i jeans.
Ombra nera contro il muro bianco. Si muove, si trasforma, si contorce. Danza.
La adoro.
Sono stufa di questo blog. Basta. Reinvantato, ristrutturato, rinato.
E chissenefrega se fa schifo.

E che ne sarà di noi? Dove sarò domani?
Cosa si fa stasera? Pizza, film o serata in discoteca?

Gelato alla nocciola che non mi piace più. L’ha rimpiazzato quello alla nutella.
Marrone e beige, oro e cioccolata. Mix di colori e di personalità.
- Sigaretta? No grazie. Non fumo, mi fa schifo. E poi puzza, ed è così banale.
- Birra? No grazie. Non bevo. Neanche l’acqua con le bollicine. Astemia fino al midollo, tollero solo l’acqua naturale. Liscia, fredda ed insapore. Asettica.
- Caffè? No, poi non riesco a dormire.
- Che cazzo riesci a fare allora?
Boh. Non lo so. So parlare, ascoltare, riflettere. Criticare, quello soprattutto. E cambiare idea ogni 5 minuti. Sono snob, ma non sono frivola. A volte mi sopravvaluto, molte più volte mi sottovaluto troppo. Prendo in giro i miei coetanei. Gli altri dicono che sono pessimista: cazzate. Sono solo realista. Cinica, anche, e ironica. Ma soprattutto con me stessa.
So giocare a poker, so analizzare i comportamenti degli altri, ma non so spiegarmi i miei. E non so truccare. Però.so.scrivere.una.frase.con.un.punto.dopo.ogni.parola.
Sono in grado di urlare quando nessuno mi sente, di cantare quando nessuno mi ascolta, di ballare quando nessuno mi guarda.
E so correre quando nessuno mi vede. Allargare le braccia, palmi in alto, e guardare il cielo. Testa reclinata, all'insù, fino a sentir crocchiare le ossa della nuca. Le pupille trafitte dal sole.
E mi chiedo cosa nasconda tutto quel blu. Se lassù c’è la felicità, la libertà, la pace, Dio.
Poi guardo di nuovo giù. Prato verde.
Blu – verde, Verde – blu.
E penso…

…e se Dio fosse uno di noi?






lunedì 20 aprile 2009

La storia della matita



Il bambino guardava il nonno che stava scrivendo una lettera. A un certo punto gli chiese: «Stai scrivendo una storia che è capitata a noi? Per caso questa storia parla di me?»
Il nonno smise di scrivere, sorrise e disse al nipote: «Sì, sto scrivendo di te, è vero. Ma la matita che sto usando è più importante delle parole che sto scrivendo. Spero che quando crescerai diventerai come lei».
Il bambino guardò la matita con curiosità, ma non ci vide nulla di speciale.
«Ma è uguale a tutte le altre matite che ho visto nella mia vita!».
«Tutto dipende dal modo in cui guardi le cose. Questa matita possiede cinque qualità: se riuscirai a trasferirle su di te, esse faranno di te una persona in pace con il mondo.
Prima qualità. Puoi fare grandi cose, ma non devi mai dimenticare che c’è una mano che guida i nostri passi. Dio: così chiamiamo questa mano. Egli deve sempre guidarti verso il compimento della Sua volontà.
Seconda qualità. Di tanto in tanto ho bisogno di interrompere la scrittura e di usare un temperino. Questo farà soffrire un po’ la matita, che però, alla fine, risulterà più appuntita. Per questo devi imparare a sopportare alcuni dolori: perché essi faranno di te una persona migliore.
Terza qualità. La matita ti permette sempre di usare una gomma per cancellare gli errori. Impara a comprendere che correggere qualcosa che abbiamo fatto non è sempre un fatto negativo, ma è anzi importante per permetterci di mantenere la via della giustizia.
Quarta qualità. Quello che importa veramente, nella matita, non è il legno o la sua forma esteriore, ma la mina che c’è dentro. Perciò, prenditi sempre cura di ciò che accade dentro di te.
Infine, la quinta qualità della matita. Essa lascia sempre un segno. Allo stesso modo, sappi che tutto quello che farai nella vita lascerà delle tracce. Per questo devi cercare di essere consapevole di ogni azione che compi”.


Paulo Coelho

domenica 5 aprile 2009

Questione di ordine.



Se c’è una cosa che io amo, è acquistare libri nel centro commerciale.
Non apprezzo particolarmente le biblioteche, né le librerie. Il che è curioso, molto curioso, per una lettrice incallita come me.
Forse è sempre stata colpa del troppo ordine. È una sensazione strana entrare nella libreria più fornita della città e vedere così tanti libri perfettamente allineati sugli scaffali, suddivisi e catalogati per genere, per autore, per titolo, per collana, per colore di copertina, forse persino per dimensione.
Si, credo che sia questo il problema.
E anche il silenzio, naturalmente. Avete mai notato la calma incontrastata che regna nelle biblioteche e nelle librerie? Decisamente troppa. Rende il tutto insapore, quasi asettico.
Al contrario c’è più gusto, molto più gusto, nell’andare a comprare un libro nel posto più caotico e confusionario della città: il centro commerciale. Che poi, più che un centro commerciale, si riduce ad un semplice ma pur grande Carrefour, qui a Lecce.
È in qualche modo suggestiva l’idea di andare a scovare il tuo romanzo proprio lì, tra gli scaffali del “reparto libri”, la sezione ostinatamente più ignorata da tutti i patiti dello shopping maniacale, troppo presi da altre cose, dal cibo, trucchi, vestiti, accessori, per pensare di distrarsi e perder tempo con i libri. Ritrovarti da sola nel punto più bistrattato del centro, con tante opere davanti agli occhi e pochi scocciatori tra le scatole. Scegliere la tua prossima lettura così, con l’altoparlante che richiama il personale interno, con il rumore dei carrelli di sottofondo, le urla dei bambini piccoli che ci scalciano dentro, circondata dal chiacchiericcio della gente frivola e snob che discute se sia più chic il tacco da 15 o da 20, o magari i tarallini al finocchio invece di quelli alla cipolla.
E il bello del centro commerciale, è che tutte le persone, la poche persone, che si soffermano a prender svogliatamente in mano qualche libro con in testa la vaga idea di regalarlo a qualcuno, poi non si preoccupano mai di rimetterlo nel posto giusto. Lo buttano lì, nel primo scaffale che capita sotto mano, troppo preoccupati di correr via prima che chiudano gli altri negozi.
Il risultato è un eccitante quanto sconvolgente disordine. Mi attrae in maniera irresistibile, magnetica, inspiegabile, mi spinge a frugare in ogni angolo, a tirar fuori tutti i libri, a controllare se per caso ne ho dimenticato qualcuno, sepolto tra quel volume e quello affianco, a leggere ogni titolo, alla ricerca di quel qualcosa di perfetto che può esserti sfuggito e che guarda caso, era proprio quello che stavi cercando.
Fico no? Hai tutto il tempo che vuoi. Nessuno che ti disturba, nessuno che ti sorveglia, che ti chieda se ti serve una mano, nessuno che ti rimproveri con un : “signorina, quando ha finito riponga i libri in ordine, per cortesia”. Nessuno che sia lì a controllare che non ti infili per caso un volume nella borsa ed esca per caso dal negozio senza – per caso – pagarlo.
Ma che scherzi? Quale persona sana di mente si sognerebbe mai di rubare un libro?
La gente con le rotelle a posto va a rubare i gioielli, mica i libri. È per questo che fuori dalle gioiellerie ci sono così tante guardie e antitaccheggiatori. Lì sì che ne vale la pena.
Vuoi paragonare il valore di una collana di perle con quello di un libro?
Devi essere fuori di testa.
E probabilmente, io lo sono.

sabato 21 febbraio 2009

Auschwitz, 12 Febbraio 2009.


Mai prima di quel momento, avevo provato la sensazione di non essere in grado di parlare.
Mai prima d’allora, avrei immaginato di non trovare più le parole.

Mai avrei creduto fosse possibile rabbrividire così, non per il gelo, non per il vento, non per la neve.
Per l'orrore.

Mai nella mia vita avevo visto così tanto.
Così tanti capelli, capelli umani. Otto tonnellate.
Sottili, bianchi, stretti l'un l'altro come i pallidi cadaveri dei proprietari, ammassati nelle fosse comuni in attesa di essere dati alle fiamme.

Così tante valigie, sfondate, saccheggiate, abbandonate.



Ognuna scrupolosamente segnata con un nome, un indirizzo, qualche volta con una data.
L'ultima ingannevole, tenera, struggente speranza di uomini che entrando lì non capivano di essere stati ingannati, che in quel posto chiamato Auschwitz non avrebbero trovato il rifugio sicuro che i tedeschi avevano promesso ne tantomeno un lavoro migliore. Non pensavano che il lavoro li avrebbe schiavizzati, umiliati, depredati della loro dignità, persino uccisi. Non immaginavano che lì dentro avrebbero patito sofferenze così atroci che avrebbero agognato ogni giorno la morte con una tale intensità da far rabbrividire.

Portavano con loro tutto, ogni avere, ogni ricchezza, ogni bene: valigie, scarpe, gioielli, spazzole, vestiti.




Assecondavano involontariamente i nazisti che li aspettavano al varco, pazzi, ladri, assassini, bestie.
Ma questo gli ebrei non potevano saperlo. Non ancora.

Così tante foto.
Uomini e donne, giovani e anziani.
Immortalati nell’attimo più straziante: quello dell’arrivo al campo.
Tutti diversi, eppure tutti uguali.
Tutti sofferenti, tutti distrutti, tutti rassegnati.
Tutti ancora speranzosi.
Fa male guardarli negli occhi, lì appesi al muro.
Giro su me stessa nella stanza delle foto, rapita e turbata. Perdo l’orientamento, tutte le pareti sono coperte di volti. Dopo un po’ mi rendo conto che non sono più io a guardare loro: sono loro che osservano me.
È come se fossero ancora vivi. Vorrebbero parlarmi, gridare, chiedere aiuto, pietà, perdono.
Chiedermi di non dimenticarli.
- Ragazzi, facciamo un gioco – ci dicono i nostri animatori – osservate con calma tutte le foto, riflettete, scegliete l’immagine di un deportato. Adottatelo. Ricordate il suo nome e provate ad immaginare la sua storia. –
Ci distribuiscono un pezzo di stoffa ciascuno, insieme ad un pennarello nero.
- Ehi Ale – sussurro al nostro capogruppo – non mi piace questo gioco - .
Lui mi posa una mano sulla spalla, comprensivo.
- Fallo solo se lo senti
No, non voglio.
Come si può trovare, in mezzo a tanti volti, quello da adottare ?
Come se questa gente non fosse già stata abbastanza studiata, analizzata, selezionata e poi trucidata.
Mi sentirei crudele a fare anche io una scelta.
Mi guardo intorno, vedo tanti ragazzi, quasi tutti, che annotano sul loro pezzo di stoffa il nome di una vittima. Anche gli adulti, anche i professori lo fanno.
All’improvviso mi sento a disagio.
Mi giro, voglio andarmene via.
Mi allontano dal gruppo, non sono la sola a farlo, e non mi importa.
Cambio stanza.
E ciò che vedo, torna ad attanagliarmi lo stomaco.
Tante altre foto, ancora, volti attaccati alle pareti.
Ma di bambini.
Sono diverse, da quelle degli adulti.
Le loro espressioni sono tenere, dolci, inconsapevoli.
Accennano un sorriso, giocano con l’obiettivo, si guardano attorno curiosi.
Ancora non sapevano, non potevano avere la consapevolezza di ciò che gli stava per accadere.
Quelli che avevano la sfortuna di sfuggire alle camere a gas, venivano imprigionati e usati come cavie da laboratorio per esperimenti medici. Moriranno lentamente, consapevolmente, patendo sofferenze indicibili.
Eppure sono lì, davanti alla macchina fotografica, con tutta la loro innocenza.
Ad un certo punto una foto, una fra le tante, cattura in modo particolare la mia attenzione.





Mi avvicino, meravigliata. Leggo la targa sotto l’immagine:

Czeslawa Kwoka
13 Dicembre 1942 – 12 Marzo 1943.

Leggo l’età, più in basso, ed una struggente tenerezza mi morde il petto.

12 anni.

Sarebbe bastato qualche anno in meno, uno o forse due, per far sì che venisse mandata direttamente nelle camere gas assieme ai neonati e ai bimbi troppo piccoli per gli esperimenti.
Solo un paio d’anni, e sarebbe spirata soffrendo molto meno.
Mi ha attirata subito, e mi ci vuole un istante a capire il perché.
Le foto degli altri bambini raccontano stati d’animo differenti, quasi bizzarri: curiosità, spavento, smarrimento, paura. Nessuno di loro ha capito, neanche uno sembra consapevole di quanto gli sta accadendo.
E invece nei suoi occhi, c’è qualcosa di più.
Rassegnazione, e tanta, tanta malinconia. Sono lucidi, bagnati di lacrime represse e frettolosamente soffocate.
Come se lei sapesse, come se avesse intuito il crudele destino che presto avrebbe stroncato la sua giovane vita. Non fissa l’obiettivo, il suo sguardo è puntato verso l’alto, timoroso, assente.
Ha un taglio, sotto le labbra. Deve essere stata picchiata, o Dio solo sa cos’altro.
Prendo il mio pezzo di stoffa, d’istinto, e ci copio sopra ogni virgola segnata sulla sua targa.
Da quel momento, qualunque cosa ci portino a vedere, ho il suo viso impresso nella mia memoria.
È lei che ho in mente quando ci portano a visitare i forni crematori.
È a lei che penso quando entriamo nelle camere a gas.
È lei che vedo quando sfiliamo silenziosi davanti alla forca collettiva, ai muri della morte, ai pali della tortura.
Come sei morta, Czeslawa?
Avrai sofferto così tanto?

Chi eri prima di essere imprigionata in quell’inferno?
Prego con tutto il cuore che Dio le abbia concesso un’infanzia felice, la migliore che si possa desiderare per un bambino.
Glielo deve, cazzo. Almeno questo.
Anche se non basterebbe mai a ripagare la mostruosità di una vita tranciata così prematuramente.


Lasciamo Auschwitz, entriamo in Birkenau.
È straordinariamente più grande, più gelido, più toccante.
Ci si perde osservando il campo, le baracche di legno, le topaie utilizzate per dormitori, le stanze della tortura, i segni ancora visibili delle immense fosse comuni.
I fiocchi di neve, le colline imbiancate, il tramonto infuocato.
Se non fosse per l’orrore del posto, mi verrebbe da pensare: che panorama stupendo.





La ferrovia, lunga e solitaria, che corre tra la neve per fermarsi ad un passo dalle camere a gas.
Quanta gente ha avuto come ultimo ricordo quella ferrovia, prima di morire soffocata?
È bello camminarci sopra, al centro.
Trovarsi dentro quell’immagine che tante volte hai visto nei libri di storia.




Sentire dentro di te l’eco di urla sepolte, di pianti soffocati, di morti silenziose, di speranze annichilite. Avvertire, su quelle rotaie, la sofferenza straziante di centinaia di uomini ammassati nei vagoni merci in uno spaventoso groviglio di membra umane.
Indescrivibile.

E poi, alla fine di Birkenau, le foto.
Di nuovo.
Quando il campo fu liberato, le truppe sovietiche trovarono, nascoste nei dormitori dei prigionieri, centinaia di foto gelosamente nascoste e custodite.
Erano le foto dei prigionieri, dei loro cari, della loro vita quando ancora era degna di essere chiamata tale.
Fa male dentro vederle esposte, immagini allegre, bambini che sorridono, una mamma che allatta, amici che scherzano al mare, un matrimonio, un battesimo, una coppia di fidanzatini in un parco, centinaia e centinaia di situazioni analoghe, felici, non ancora deturpare dall’orrore della morte.
Sono immagini che sanno di già visto, che ricordano quelle dei nostri nonni, in bianco e nero, sfumate, sfocate, eppure terribilmente toccanti.
Siamo abituati a provare compassione davanti ad immagini studiate, bambini poveri africani, bambini neri, foto di prigionieri colti nell’attimo prima della morte.
Non siamo abituati a sentirci così commossi davanti alla normalità, ad immagini comuni, piene di gioia.
Vedi te stesso in quelle foto, tu e i tuoi amici, tu e i tuoi parenti, tu e la tua vita. Pensi che potresti tranquillamente essere stato uno di loro, ti chiedi cosa avresti fatto, come avresti reagito, se lo avresti sopportato. Intravedi, nell’innocenza di quelle foto, la bestialità di milioni di vite rubate, di relazioni interrotte, potenzialità non sviluppate, aspirazioni non coltivate.
E se c’era una cosa, che la follia nazista non aveva previsto, era che non erano i gioielli, i vestiti, le valigie, i soldi, i beni più cari che erano riusciti a sottrarre ai prigionieri.
C’era qualcosa di ben più prezioso, che mai sarebbero riusciti a rubare: tutti i loro ricordi.
E davanti a quelle foto, una lacrima corre giù, solitaria e silenziosa.

E così calano le tenebre su Auschwitz, mentre settecento ragazzi hanno appena vissuto l’esperienza più toccante della loro vita.
Ci raccogliamo attorno al monumento di commemorazione, dove è stato approntato un palco per l’assemblea, ascoltiamo, pensiamo, riflettiamo, leggiamo, applaudiamo, piangiamo, urliamo.
Io mi volto, e sulle rotaie su cui ho camminato a lungo avanti e indietro con il cuore in tumulto, vedo lei, leggera, che mi guarda e quasi sorride: Czeslawa.
La ragazzina dagli occhi tristi.
Mentre intorno, è ormai buio.




“Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.”
(Elie Wiesel)

mercoledì 4 febbraio 2009

Alternative World


Eppure a volte, mi capita ancora di estraniarmi in un universo tutto mio. Anzi no, non sono io ad entrare in un altro mondo, è proprio quell’altro mondo a farsi largo prepotentemente tra i meandri più reconditi dei miei pensieri, ad irrompere bruscamente nella mia realtà mentale e persino visiva. Come se la quotidianità che mi circonda cambiasse improvvisamente forma, sfumando gradualmente in una realtà dai contorni sempre più fantastici. Non è come sognare: i sogni sono fittizi, ingannevoli, offrono una rappresentazione distorta e illusoria della verità.
Questo è qualcosa di più. È come entrare nell’Eden, ma dalla porta di servizio. Come essere introdotti di soppiatto in un universo che pochi, pochissimi, o forse nessuno tranne te, ha avuto la possibilità di scoprire. E il bello è che, quando accade, non te ne rendi neanche conto: sei scioccato, completamente paralizzato dallo stupore e dalla meraviglia. Ti ritrovi a chiederti cosa ci fai lì, e perché gli altri non sono con te. Vorresti che anche loro ammirassero quello che tu vedi, che senti, che percepisci, vorresti che la smettessero di guardarti come se fossi diventata matta.
Poi però, ti rendi conto che è più bello essere da soli. Dà più gusto a quello che osservi, lo rende più caldo, più intimo, più segreto.
Ed è allora che mi rendo conto di essere infinitamente riconoscente a chi mi ha donato questo corpo, che come una rete dorata, imprigiona la mia essenza. Perché dentro, ho un mondo che nessuno potrà mai neanche immaginare…

domenica 25 gennaio 2009

"Fenomeno Twilight"...sicuri che sia un fenomeno?!


Ebbene si, nonostante avessi il sangue acido da mesi per l’inaspettato posticipo del rilascio cinematografico della pellicola più attesa degli ultimi anni (per non dire generazioni!), un po’ per ripicca un po’ per curiosità, sono andata a vedere quel film che, con un’abile e poco diplomatica mossa strategica, aveva silenziosamente e (in)degnamente piazzato il proprio debutto esattamente in quella che era la data ufficiale del rilascio di uno dei fenomeni letterari più importanti degli ultimi decenni.
E così, mentre triliardi di fans di tutto il mondo, di tutte le generazioni, di tutti i sessi, religioni, razze e orientamenti sessuali attendavano scalpitanti l’uscita del sesto capitolo cinematografico del fenomeno di “Harry Potter”, la Warner Brothers ha furbescamente (e stronzamente) annunciato il posticipo della suddetta uscita, inizialmente fissato al 21 Novembre 2008, fino al 17 Luglio 2009, attualmente nuova data ufficiale.
Un ritardo mostruoso, porca trota. Non si parla di giorni, settimane, ma di NOVE mesi. Potrei mettere al mondo un bambino, nel frattempo! Se continua così ci porterò i miei figli, a vedere l’ultimo capitolo della saga Potteriana, previsto per il 2011.
Colpa dello sciopero degli sceneggiatori, si giustificano loro?! Col cavolo! Solo perverse e contorte logiche di guadagno. Sanno che a Luglio incasseranno più che a Novembre. Periodo estivo, dunque concorrenza zero. Poi qualcuno mi deve spiegare come diavolo fanno gli americani e/o inglesi a preferire andare al cinema in estate piuttosto che in inverno. Misteri imperscrutabili ai comuni mortali.
Bene, ma non divaghiamo. Fatto sta che dopo lo “slittamento” del Potter e il polverone di proteste imbufalite dei suddetti triliardi di fans, una produzione cinematografica minore, partita in sordina ma già con un discreto bagaglio di appassionati, ha pensato bene di “anticipare” la data d’esordio proprio in quel famoso 21 Novembre 2008.
Trattasi di “Twilight”, trasposizione cinematografica del primo episodio della fortunata saga fantasy partorita da Sthepenie Mayer. A dimostrazione che il fantasy è particolarmente in voga al momento, e parecchio anche, che piaccia o no.
Dunque spinta dalla frustrazione, dalla curiosità e da un innato spirito critico e voglia di fare un confronto, non ho saputo resistere alla tentazione di sborsare 4.50 euro e di “sprecare” 120 minuti della mia vita per visionare codesto film tanto acclamato, idolatrato e sponsorizzato dai media.
Partendo dal presupposto che NON ho letto nessun libro della saga della Mayer, e che tutto sommato NON penso di aver buttato i miei soldi, ci tengo a esprimere un giudizio assolutamente personale ma il più possibile critico e oggettivo.
Ironia della sorte, la prima cosa che colpisce è la scelta del protagonista maschile, il semi-sconosciuto Robert Pattinson, 22enne Londinese. Curioso, perché il bel giovane era in realtà già noto ai moltissimi fans di Harry Potter, avendo interpretato la parte di Cedric Diggory nel quarto capitolo della saga. Spontaneo dunque, anche qui, il paragone. Notevolmente peggiorato (parlando di aspetto fisico, e non solo) rispetto ai tempi del Calice di Fuoco. Personalissima opinione.
Ma andiamo oltre, non siamo certo qui per parlare di bellezza fisica.
Il film tutto sommato è piacevole, gradevole nel complesso, ma senza esagerare. Realizzato discretamente, tenendo conto del ridotto budget di produzione, attori qualitativamente passabili e regia accettabile.
Peccato che con il passare dei minuti si notino le lampanti pecche.
Innanzi tutto, gli effetti speciali. Niente di sbalorditivo, tecniche già strausate e scontate. Se qualcuno pensa che siano effetti fantastici, consiglio di guardare Harry Potter e l’Ordine della Fenice, e poi provare a rifare il paragone.
Seconda cosa, la sceneggiatura.
Non del tutto da buttar via, per carità, ma piena zeppa di clichè già abusati e forse stufati persino da quei teen-agers a cui il film strizza l’occhio. La storia del bello e maledetto che si innamora della povera fanciulla indifesa di turno, le promesse strappalacrime (non ti lascerò mai, farò di tutto per proteggerti, non permetterò che ti facciano del male e bla, bla, bla…), i famosi “balli di fine anno scolastico” alla “Cinderella – story” (tipica americanata), la lezione di biologia dove, guarda che coincidenza, l’unico posto rimasto non occupato è proprio quello accanto al tenebroso Edward Cullen. Per non parlare della love-story impossibile alla “giulietta e romeo” in chiave dark, come dice la mia amica Sara, o del "remake" (per non dire plagio) di Titanic con tanto di frase scopiazzata: "Ti fidi di me?". Ridicola la scena di Edward che appena esposto al sole "sbrilluccica tutto" (ma che è?! sembra che gli abbiano spalmato su tutto il corpo quella roba tutta brillantinata e glitterosa che usavo sul mio diario quando facevo la terza elementare!). E tra l'altro qualcuno deve spegarmi come mai il "cattivo" capitato lì quasi per caso è sempre interpretato da un figo da paura, (vedi Voljock di the O.C...!) che vuole far del male alla bella Bella (no, non ho sbagliato, il primo è un aggettivo e il secondo è il nome della protagonista) e poi si rivela alla fine un idiota assurdo che dopo aver progettato chissà quale malefico piano si lascia trovare e ammazzare quasi come se nulla fosse. boh! ci sono 30 minuti di fughe roccambolesche nel bosco e in macchina, la trovata geniale (?) del filmino registrato da usare come esca, poi la lotta spettacolare nella scuola da ballo (uno dei pochi momenti ben fatti del film) e poi, cosa succede?!Arrivano i Cullen da un momento all'altro (non si capisce come facciano a trovarlo e ad arrivare sempre nel momento giusto) e per il cattivo non c'è scampo. Un pò deludente come finale, mi aspettavo più colpi di scena...
Insomma, cose già viste e riviste, alquanto prevedibili.
Ma forse, di questo, la colpa non è da imputare tutta agli sceneggiatori. Mi verrebbe da dire che sia colpa della Mayer, che ha messo in piedi una saga forse non così prodigiosa come molti ritengono, ma non avendo mai letto nessun suo libro posso anche concedere il beneficio del dubbio.
Certamente però posso affermare che di originale non c’è proprio nulla, nella sua storia. I vampiri sono creature fantastiche stra-note e stra-rappresentate, in tutti i contesti (vedi Dracula, Buffy, Streghe ecc ecc) così come l’improbabile storia d’amore a lieto fine tra il “leone e l’agnello” in questione (giusto per citare le parole del film).
Del film colpisce la freschezza degli attori, il loro impegno recitativo, attrae in qualche modo questa storia di passione tra due bei ragazzi, che fa sempre un po’ sognare migliaia di adolescenti, qualche battuta “comica” all’interno dei 120 minuti, ma niente di più.
Nulla di lontanamente paragonabile, concedetemelo, allo straordinario mondo creato ( e non riadattato) dalla prodigiosa penna di J.K.Rowling.
So che sono probabilmente due saghe molto differenti e difficilmente accostabili, ma dopo aver udito e letto per settimane frasi del tipo: "Sembra che Harry abbia bisogno di far posto a Bella ed Edward..."....oppure: “Il vampiro fa un solo boccone di Harry Potter”, e dopo aver visto questo “famoso” Twilight, mi viene un po’ da sorridere. Tranquilli, fedelissimi fans di Enrico Pottero (giusto per italianizzarlo, xd!) niente potrà mai soppiantare il nostro idolo. La PotterMania sarà difficilissima, se non impossibile, da eguagliare.
Di certo, non ci riuscirà Twilight.
E giusto per non essere accusata di presunzione, rilascio quanto dichiarato dalla stessa Stephenie Mayer, scrittrice di Twilight:

"E' più facile paragonare i nostri fans tra loro che me e la Rowling. Entrambe abbiamo lettori estremamente entusiasti che viaggerebbero per miglia per vederci e essere coinvolti, e tutti tengono molto ai nostri personaggi. Ma le storie di Harry Potter e Twilight sono molto diverse. L'audience di J.K. Rowling è universale, il che significa che tutti condividiamo con lei parte dei suoi lettori. E' molto lusinghiero essere paragonata a lei ma non ci sarà mai un'altra J.K. Rowling. E' un fenomeno che non si ripeterà."

Quando rivedrete centinaia di fans stipati dietro una libreria in attesa di acquistare l’ultimo libro di una saga letteraria, quando vedrete furgoni delle case editrici “assaliti” dai lettori in attesa di avere tra le mani un semplice libro senza voler aspettare qualche ora in più, quando ci sarà un’altra donna che diventerà la più ricca del Regno Unito semplicemente grazie ai suoi libri, fatemelo sapere.
È anche vero che, nonostante tutto, Harry Potter ha già alle spalle 5 film realizzati e 7 libri pubblicati, oltre che un massiccio battage pubblicitario su tutti i fronti, mentre Twilight è “solo” al primo episodio cinematografico e al quarto cartaceo.
Forse la fama della Mayer crescerà nei prossimi anni tanto da raggiungere quella della Rowling, anche se a me sembra alquanto arduo.
Ma nessuno ha la palla di vetro, e così…impossibile is nothing.
Ai posteri, dunque, l’ardua sentenza.


Skina

mercoledì 21 gennaio 2009

Utopie



Ho imparato che le persone si dividono in quattro categorie, quando sono messe faccia a faccia contro i sogni.
Ci sono quelli che non ne hanno nessuno. E sono i più miserabili. Forse indegni di aver ricevuto il dono dell’esistenza.
Ci sono quelli che fingono di non averli. Sostengono di non credere in queste frivolezze, di avere una vita già abbastanza perfetta per pensare di deturparla con qualcosa di talmente illusorio da sgretolarsi con la stessa facilità di un castello di carte.
Il più delle volte sono quelli che fanno di tutto per deridere le tue aspirazioni. Sono arsi dall’invidia, dalla rabbia per non aver il coraggio di mostrarsi alla gente completamente denudati di ogni brandello d’ipocrisia.
Poi, ci sono quelli che li ostentano senza pudore. Te li sbattono sotto gli occhi di continuo, ne parlano con chiunque, li dipingono dappertutto, si esaltano solo pensandoci. Idolatrano anche le più effimere utopie.
Questi, sono quelli che hanno disperatamente bisogno di aggrapparsi alle fantasie per non annaspare nel nero vortice della realtà. Ma spesso, non se ne rendono neanche conto.
Infine, ci sono quelli che sognano in segreto. Vivono di fantasie, sperano in silenzio. Proteggono i loro sogni da chiunque, ci tengono così tanto da essere divorati dalla paura al solo pensiero di sottrarli dalla calda ombra della propria intimità per esporli sotto gli occhi di coloro che non li capirebbero. Come se celassero tra le mani una delicata farfalla le cui ali risulterebbero sciupate al solo sguardo di estranei.
Però li coltivano di nascosto, morbosamente gelosi e ossessivamente protettivi. Li rincorrono in sordina, con il cuore colmo di determinazione e sul viso una maschera di perenne noncuranza.
Il più delle volte, questi, sono quelli destinati a realizzarli.

Poi ho imparato che rincorrere un sogno è come innamorarti del tuo peggior nemico. O del tuo migliore amico.
Sai che non ti ricambierà mai. Sai che ti farà soffrire, ti lascerà disillusa, prosciugherà tutte le tue energie. Inevitabilmente ti tradirà, e ogni volta che lo scoprirai ti ritroverai a inveire contro l’amante di turno e a chiederti perché. Perché lei si, e tu no? Perché lei ce l’ha fatta, e tu sei ancora lì? Che cos’ha lei che a te manca?
Ti capiterà di aver voglia di farla finita, di piangere lacrime sul latte versato, di sputare sopra le tue effimere illusioni. Penserai di aver fallito, di aver buttato le tue forze, vorrai tornare indietro e chiederti come aver potuto credere di poterci riuscire.
Guarderai il tuo sogno con disprezzo, lo deriderai, vedrai in lui lo specchio delle tue debolezze e l’ingannevole rifugio della tua tormentata coscienza.
Finché non lo raggiungerai.

sabato 17 gennaio 2009

Oceano di carta




Non lo so perché mi sembri una cosa tanto speciale.
Non è certo la prima volta che ci provo, questo no. E non che tenere un blog sia qualcosa di particolarmente complicato, affatto.
Eppure, ciò che mi ha sempre spaventata, è l’idea di imprimere sulla carta indizi inconfessabili che violino inavvertitamente lo scrigno delle mie emozioni, rivelando e tradendo l’essenza del mio io. E soprattutto, la consapevolezza che altri, estranei, sconosciuti, abbiano in tal modo la possibilità di attentare continuamente alla segretezza della mia calda intimità. E non è facile sottoporsi all’occhio indagatore dei curiosi e lasciar frugare chiunque nella tua vita. Occorre determinazione, voglia di mettersi alla prova, sicurezza, coraggio.
- Ci vogliono le palle – riassumerebbero pittorescamente i miei amici di una vita.
Tuttavia nonostante tutto, trovo che la sensazione di vedere le tue confessioni materializzarsi davanti ai tuoi occhi e l’emozione di sentire tutti i castelli di rabbia sgretolarsi in quell’oceano di carta, siano qualcosa di impagabile.
L’idea di avere anch’io il mio piccolo ritaglio di spazio discretamente incastonato nell’asfissiante puzzle del web, è terribilmente rassicurante. Mi regala l’illusione di essere qualcuno, di valere qualcosa.
La consapevolezza di mettermi a nudo, di mostrarmi agli occhi di chiunque completamente denudata di ogni brandello di ipocrisia, è qualcosa di incredibilmente attraente. Elettrizzante e deleterio insieme.
C’è un legame irresistibile, tra me e la scrittura.
Non è vanità, non è superbia, non è neppure egocentrismo.
È solo insicurezza.
Quando il coraggio viene meno, quando la paura prende il sopravvento e un senso di smarrimento mi offusca la mente, quando l’angoscia mi preme sullo stomaco o qualcosa mi terrorizza, mi è sufficiente scrivere per ritrovare l’essenza del mio essere. E quando poi, completamente svuotata di ogni strascico di nervosismo, mi soffermo a contemplare la mia opera, mi rendo conto che quello che ho davanti agli occhi, non è altro che lo specchio della vera me stessa. Ogni parola, ogni lettera, ogni virgola, muta improvvisamente forma, diventando il riflesso di ogni più piccolo frammento di anima.
Ed è allora che capisco, con la stessa naturalezza con la quale la volpe intuisce l’attimo prima dello sparo, che non esiste niente di più eccitante che sfidare la tua inquietudine guardandoti dritta negli occhi.